Contro la Xylella ora c’è una speranza, il leccino. Ma a uccidere i produttori di olive della Puglia, oltre al batterio, sono incapacità politica e burocrazia

La speranza per i coltivatori di olive della Puglia falcidiata da Xylella, si chiama “Leccino”, una varietà di ulivo risultata resistente (che è diverso da immune) al batterio. Tanto che martedì 27 agosto nell’azienda agricola di Giovanni Melcarne, a Gagliano del Capo, nella provincia di Lecce (la prima sei anni fa ad essere colpita dall’epidemia), si sono raccolte le prime olive ottenute da piante immunizzate (ndc: termine usato dal giornalista).

A produrre i frutti della (forse) rinascita, giovani ulivi innestati tre anni fa con il Leccino. Tanto tempo serve infatti a una pianta per tornare a offrire le olive. E segnali incoraggianti stanno arrivando anche dagli innesti sulle piante secolari – quelle poche che sono sopravvissute -, sebbene la comunità scientifica non possa ancora certificare i risultati.  Un raggio di sole, in un panorama allarmante, se si considera che ormai Xylella ha raggiunto Fasano (Brindisi), si è affacciata in Basilicata e avanza al ritmo di 2 chilometri al giorno.

Per comprendere quanto la raccolta del dottor Malcarne abbia un valore simbolico, basta ricordare che a causa di Xylella fastidiosa, nella provincia di Lecce sono andate perse quasi 3 olive su 4.  Nel 2018 la produzione di olio di oliva extravergine è crollata del 73%.

Una calamità, considerando che la Puglia da sola produce oltre la metà dell’olio “Made in Italy”.

Quest’anno le prospettive sembrano migliori: con un extra vergine stimato nel 2019 in aumento del 70-80%, grazie alla ripresa degli uliveti delle aree di Bari e Foggia, con ottime performance anche di Taranto e Brindisi. Bizze climatiche permettendo, la produzione potrà toccare i 315 milioni di chili, ma resta comunque notevolmente inferiore alla media dell’ultimo decennio.

Una ripresa che però non tocca il Salento, dove si stima un calo del 90-95% della produzione rispetto alle medie storiche, perché risultano produttive solo le piante di Leccino, che sono appena il 5% degli ulivi.

Le altre varietà, la Cellina e l’Ogliarola, sono state decimate.

La scelta della spremitura nell’azienda Malcarne non è affatto casuale. È stato infatti Giovanni, che è imprenditore, ma anche agronomo, a “scoprire” la resistenza del Leccino.

Di sua sponte, infatti, ha rintracciato oltre 30 varietà di ulivo xylella-resistenti (ndc: termine usato dal giornalista) e le sta testando – inoculandole con il batterio – nella serra della sua azienda.

Ha inoltre destinato 12 dei 50 ettari della sua tenuta a laboratorio di sperimentazione, dove testa le nuove varietà.

Un’iniziativa solitaria, una crociata spinta dalla disperazione, vista l’assenza delle istituzioni, troppo impegnate a polemizzare tra loro. Una lotta monitorata dai ricercatori, i quali però, per certificare i vari progressi scientifici (come l’utilizzo del Leccino), devono aspettare i tempi della scienza, assai diversi da quelli dell’economia.

Ma a rendere la vita difficile ai contadini pugliesi non è solo l’invasione batterica.

A uccidere le aziende e a soffocare l’economia di un territorio ci pensano anche la burocrazia, la lotta tra istituzioni, l’interpretazione di decreti discordanti tra Stato e Regione, l’impreparazione (nella provincia di Lecce non si è mai fatto un censimento delle piante di ulivo, e in quelle di Brindisi e Bari lo si è fatto solo quando la l’epidemia era ormai conclamata).

Un esempio chiarisce il cortocircuito pugliese: il “decreto Centinaio”, giunto con sei anni di ritardo, ha eliminato i vincoli previsti sull’espianto e sul reimpianto degli ulivi morti (gli ulivi centenari erano infatti sottoposti a tutela paesaggistica).

Ma la Regione Puglia ha abbracciato un’interpretazione restrittiva del decreto, così oggi la Regione guidata dal Pd Emiliano permette di estirpare le piante morte, ma non di ripiantarle.

Per poterlo fare, serve il nulla osta della Sovrintendenza alle belle arti e lo si può ottenere solo presentando una specifica domanda.

La pratica è l’equivalente di una richiesta di licenza edilizia”, spiega Melcarne, “costa fino a 2.500 euro a pianta e l’iter dura oltre un anno. Un’assurdità!”.

Non solo: oggi gli agricoltori possono accedere agli aiuti economici, tuttavia, qualora dovessero usufruirne, ma la loro domanda alla sovrintendenza dovesse essere respinta, non solo dovrebbero restituire i soldi, ma sarebbero anche passibili di procedimento penale per abuso edilizio.

Ma i vincoli burocratici comportano anche un altro risvolto negativo: le zone desertificate dal batterio, non più manutenute, si trasformano in sterpaglie, quindi il rischio incendio è decuplicato.

Secondo i dati dei Vigili del Fuoco, solo a luglio nella provincia di Lecce, sono scoppiati 70 incendi che hanno carbonizzato 1300 ulivi. Il più colpito è stato il comune di Ugento, con 900 piante andate in fumo, mentre altre 500 sono bruciate a Tricase in un unico rogo.

Inoltre, l’emergenza è moltiplicata dalla scarsità dei mezzi di soccorso a disposizione – solo per spegnere le fiamme di un singolo albero servono oltre 300 litri d’acqua –, quindi i vigili del fuoco possono solo circoscrivere le fiamme, creando un perimetro per evitare che si propaghino, accettando di lasciar bruciare tutti gli alberi all’interno degli uliveti.